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Testi /Terra

Testo di approfondimento


I miei occhi hanno guardato spesso la terra, sin da bambina. Era la terra fertile della pianura e delle colline che lambiscono Este, la cittadina dove sono nata e sono vissuta sino ai vent’anni.

La pianura del Po’ e i colli Euganei, che da essa scaturiscono docilmente improvvisi, sono fatti di terra corposa, pregna di vita. È terra d’incontro: terra portata dall’acqua dolce del fiume e terra spinta, spaccata, sollevata dall’energia infuocata del vulcano. Ovunque è terra viva, è polpa e succo, è materia attraente. Se chiudo gli occhi e penso a quella terra vedo i suoi cretti umidi, le frastagliature delle zolle scure, il vapore che le ricopre al mattino. Vedo anche il verde che da essa nasce, che ne diventa a volte respiro, a volte soffocante coperta, intreccio di fili inestricabili. Vedo le ciliegie rosse e l’uva che mi ha regalato nelle scampagnate di ogni tempo. Insomma, vedo una madre abbondante, vedo le rotondità delle sue carni. Una terra madre dalla quale sono partita.

Altre attrazioni. Nelle colline d’Urbino, durante i miei studi d’arte, ho incontrato una terra più dolce e sinuosa, che scivolava via davanti agli occhi impegnati a scrutare altre materie. Eppure, tra mille disegni, le “riquadrature” e i solchi ondosi dei campi erano perfetti e intoccabili. Una terra disegno, una terra abito fresco di cucitura, una terra che si indossava a pennello, leggera leggera, corsa danzante, fiore, pelle da sfiorare un attimo, per poi riprendere il cammino. Una terra figlia.

L’approdo nelle terre dell’isola, l’isola di San Pietro a sud ovest della Sardegna, è stato spiazzante. Col mio abito leggero leggero e il ricordo del morbido abbraccio materno mi sono trovata circondata da uno scheletro antichissimo, attraente come calamita, la terra nella sua essenza, scarna. Terra secca, terra di polvere fine, dura, metallica, terra osso. Ancora terra d’incontro tra acqua e vulcano eppure così sostanzialmente “altra”, perché terra di sale. Tutt’altro sapore rispetto alla terra d’acqua dolce. La terra dell’isola è aspra, poche rotondità, si erge come respiro della terra sommersa, è per questo che sembra spalancarsi totalmente al vento, a bocca aperta.  è terra perché non è mare e la sua stessa esistenza è legata alla sua capacità di difendere il confine che il vulcano un tempo ha segnato. È terra che resiste, che invecchia tenacemente, è la madre della madre e allo stesso tempo è molto vicina alla nascita, all’origine,  è ovulo fatto di ossa: in esso tutti i segni che sono stati e che verranno.

In questa terra ho trovato solchi riempiti di ocra rossa e gialla. Ho trovato metalli, argille, sabbie, diaspri. Ho trovato, e trovo ad ogni passo, colore.

Il colore della terra è indissolubilmente legato alla sua “fisicità” materica. Qui, il suo bianco è argilla che si gonfia d’acqua e asciugandosi genera un chiaroscuro di crepature, il suo rosso è ocra fine o ciottolo scuro dal cuore intenso e vivo, il suo nero è manganese a tratti friabile, a tratti compatto.

Alchimie intense di acqua, terra, fuoco e vento hanno modellato questa ossatura donandole infinite sfumature. Toccarla con le mani è un’emozione grande ogni volta, richiede rispetto e ascolto. Considero un privilegio poter raccogliere il colore della terra con le mani, come ne raccogliessi un frutto, come se ad un tratto l’osso fosse divenuto ramo verde, carico di ciliegie, come se la madre tornasse ad inebriarmi con il suo abbraccio, con il suo latte. Vi è un aspetto gioioso nella raccolta, un pre-assaporare, un lasciarsi tingere le mani dal succo di ciascun frutto. Ma osso sto toccando, il peso della materia si impone, la sensazione diventa più intensa e profonda, è quella di succhiare un midollo, una materia vitale, ogni granello è prezioso, non va sprecato, non deve andare perduto. Ogni granello ha un valore enorme, germe di futuri segni è segno magnifico del tempo e della materia, ha una sua potenza, è quasi intoccabile. La raccolta diventa faticosa, carica di responsabilità. La madre della madre, la primissima madre della madre, non ha latte, ha un altro tipo di abbraccio, altro nutrimento, altra relazione fatta di echi profondi. In fondo, quando scavo con le mani la terra, scavo dentro me stessa, creo un piccolo vuoto nella terra e un piccolo vuoto in me, un vuoto significativo che permette di guardare più in fondo, di guardare attraverso, dentro, di scoprire il colore nascosto dall’ossidazione dello strato superiore. A questo punto il sacchetto di terra che ho tra le mani è la materia che riempiva il vuoto, è il “pieno” e ciò la carica di pesantezza.

Il sacchetto di terra, i tanti sacchetti di terre diverse, custoditi come tesori temporaneamente inerti, zavorrano la tensione al vuoto scoperta nella raccolta. L’impegno ora è quello di svuotare anch’essi, di liberare la materia dalla sua pienezza, dalla sua pesantezza, e di renderla vuoto, un vuoto vivo, con un suo respiro, di nuovo un suo vento. L’osso tolto dallo scheletro è ancora più osso, ha lasciato un vuoto acquistando presenza, identità specifica: è questa terra che ho in mano, è argilla bianca, argilla rosa, grigia, arancio, è ocra rossa,  gialla, è ciottolo nero di manganese. La tensione, la tentazione, è di liberare ciascuna terra da se stessa, liberare la sua essenza di midollo vitale, fecondare l’ovulo in modo che esso più non stia, ma si trasformi in qualcosa d’altro, capace a sua volta di generare un respiro. Ma essere troppo coscienti della meta, nel gioco della trasformazione, rende impossibile il suo raggiungimento, che sta nel fare, sta in sottili ascolti immediati, in un operare continuo, in passi mossi uno dietro l’altro, in repentine corse indietro e avanti, in dialoghi intricati o limpidissimi con la materia.

Le mani impastano con acqua l’argilla, ascoltano la sua porosità diversa, la sua sete: è come impastare un cibo, toccare il midollo. Le mani stendono la terra, la pressano, vi creano solchi, segni, dove necessario, dove possibile, dove essa si lascia solcare, dove il solco accade. La materia è presenza forte, alle volte dirige essa stessa il gioco in modo determinante, alle volte cede umile. Vi sono momenti, e sono i più belli, in cui le mani sembrano fatte di terra esse stesse, scompaiono nella terra-colore agendovi da dentro, fondendosi con le sue spinte, le sue correnti, i suoi respiri.

Le mani sbriciolano le ocre, le strofinano sul legno impregnandolo e impregnandosi di colore, le mani mescolano, dipingono strati sottili che seccheranno come veli impalpabili accanto alle masse rugose d’argilla. L’asciugatura è una fase importante, è il momento del lasciare, del distacco, del togliere le mani e dell’osservare semplicemente, ogni volta con stupore nonostante una certa reciproca conoscenza, il definirsi dell’opera attraverso la sua evaporazione, il suo respiro fisico. Ciò che rimane è il sale, il sedimento del salto e del percorso, il sedimento di quella tensione nata nel momento della raccolta, in cui ho creato un piccolo vuoto con le mani nella terra.

Marta Fontana

Testo edito in “ANFIONE e ZETO - rivista di architettura e arti”
sezione monografica “Arti visive e design”
n.17, tema: singolarità. Peter Eisenman.
Direttore: Margherita Petranzan
Il Poligrafo casa editrice, Padova
Settembre 2004

 



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